Mi hanno proposto di parlare un
po' dell'anima della città di Palencia. Ma è difficile parlare dell'anima di
una città senza parlare anche della nostra anima. Ecco perché ho intitolato
questo intervento così: “La città e la
sua anima. Io e l’anima mia" Una città può essere vista da molte
angolazioni. Voi giovani avete fatto tappa a Palencia, prima di incontrare
altri giovani, può darsi diversi da voi, ma uniti dall'appartenenza al gruppo
dei seguaci di Gesù. È logico, quindi, che il mio sguardo sulla città sia uno
sguardo umanista, giacché Gesù, facendosi uomo, ha umanizzato tutti e tutto.
Paolo VI aveva gridato propio in Fatima-Portogallo: “Uomini, siate uomini”. Oltre ad essere donne e uomini, dobbiamo
essere umani.
L'anima di una città è fatta di
persone o di eventi che le hanno dato un slancio duraturo o che hanno segnato
il suo volto e il suo spirito per l’avvenire. Vi parlerò dell'anima di
Palencia, e allo stesso tempo degli insegnamenti che l'anima di questa città
può offrirci. L'essere umano non è qualcosa, è qualcuno, cioè viene al mondo
dotato di un 'plus', più, che, lui stesso o le sue circostanze, possono fare
crescere o diminuire. L'idea cristiana dell'anima fa riferimento a questo
"più”.
Esempi:
Voi siete italiani. Ogni volta
che uno sente “Il coro degli schiavi ebrei, dell’Opera Nabucco, di Giuseppe
Verdi” é difficile non pensare a una intera nazione.
Voi andate in peregrinazione per
il Portogallo. Se in questi giorni sentite la canzone “Uma casa portuguesa”, di
Amalia Rodrigues, potete esservi sicuri di toccare l’anima di un popolo intero.
Si puó leggere, per caso, Il gattopardo,
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, senza pensare all’anima della Sicilia?
Tutte le ideologie, qualunque
esse siano, tendono a spogliare l'essere umano dell'anima. La grande tentazione
di chi esercita il potere politico, economico, culturale e anche religioso è
quella di lasciare senz'anima gli uomini e le donne del proprio tempo e
trasformarli in "cose": sacchi di desideri da soddisfare con una Visa
e sacchi di bisogni che fanno dell’essere umano un vagabondo da supermercato in
supermercato. L'uomo senz'anima è solo un consumatore.
Tra i cristiani di oggi c'è un
grande scoraggiamento: le chiese sono vuote, manifestarsi como credente è
politicamente scorretto. Sono molti quelli che affermano: "Tutto è
morto della civiltà che amavamo". Eppure, ci sono ragioni per questa
amarezza? Non sono tutti i giorni del mondo “il primo giorno della settimana”, questa bella espressione che
scrivono gli evangelisti prima di riferire la risurrezione di Cristo?
Continueremo chiusi in casa con le porte chiuse per paura dell'ambiente esterno
ostile? Non è tutto grazia come ci ha insegnato lo scrittore Georges Bernanos?
Non è conveniente che la Religione e la Chiesa impallidiscano e appassiscano,
affinché Cristo risplenda e trionfi nei cuori e nel mondo?
Vediamo, allora, se scoprendo
l'anima della città, riusciamo a trovare qualcosa di prezioso anche nella
nostra anima o per la nostra anima.
1.- Una statua: Il Cristo del Otero.
Il primo libro che ho letto in
italiano, a 20 anni, è stato un romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a
Eboli. Ma è vero che Cristo si è fermato ad Eboli? direi di no. Cristo è
arrivato a Palencia, poi arriverà a Lisbona, e, probabilmente, arriverà fino a
Como. Il titolo di Carlo Levi indica che a volte possiamo imbatterci in un tale
grado di povertà, brutalità e ignoranza, che ci fa pensare che Cristo non è
ancora sceso a un territorio concreto, a una comunità. Eppure sappiamo per
esperienza che, qua e là, le persone buone che sostengono il mondo
"costringono" Cristo a scendere dal suo cielo su questa terra. Forse
per questo il Dalai Lama diceva che "Un buon cuore è la migliore
religione". Ogni azione, ogni
parola, ogni pensiero di bontà rinnova la incarnazione e la risurrezione di
Gesù. La verità, la bellezza e la bontà attualizano ogni giorno il Vangelo.
Nel 1930 lo scultore
internazionale Victorio Macho, nato in questa terra, innalzò il Cristo
del Otero. Una scultura che conserva l'estetica dell'art déco, le risonanze
cubiste del momento e la natura ieratica della scultura egizia. È una delle
sculture di Cristo più alte, probabilmente la quinta al mondo. Misura 20 metri.
Ai suoi piedi c'è un piccolo romitorio dove, dopo tanti andirivieni, lo
scultore volle riposare per sempre, sotto questo epitaffio: “Il mio ultimo giorno: Qui ai piedi di
questo Cristo / Venne a riposare il suo autore”.
“Mi última
jornada: Aquí a los pies de este Cristo /Vino a descansar su autor”.
Come altri Cristi monumentali
sparsi nel mondo, è un omaggio al Sacro Cuore di Gesù, un canto alla tenerezza
di Dio. Ma questo Cristo del Otero rappresenta Gesù al momento del Discorso
della Montagna, cioè delle Beatitudini. La collina alta 850 metri, dove si erge
questa scultura monumentale, evoca facilmente quel momento narrato nel Vangelo
di Matteo. Chi si avvicina al Cristo del Otero può ancora sentire: "Beati i poveri, i puri di cuore,
coloro che hanno sete di giustizia, gli umili..." Una delle questioni
a cui Victorio Macho ha pensato di più è stata la posizione che avrebbero
dovuto avere le braccia della statua. Alla fine ha scelto di riprodurre la
posizione delle braccia del sacerdote nel momento in cui, al termine della
messa, congeda i fedeli augurando loro la pace. La città è ai suoi piedi. Sotto
la sua benedizione, i cittadini di Palencia riposano, festeggiano, amano,
lavorano, piangono o ridono, a casa e per strada. E oltre la città, la campagna
che alimenta gli uomini e le donne di questa terra. E più in là ancora,
l'immensa pianura, perché "Castiglia è ampia". “Ancha es Castilla”.
Un invito: vedere
attraverso gli occhi di Cristo

Otero, poggio, è il luogo da dove si può avere una
veduta più vasta e allungare lo sguardo fino all'orizzonte. Il Cristo del Otero
ha le orbite degli occhi vuote. Sono come due piccole finestre. Una metafora
poetica. Un invito ad affacciarsi a quella finestra e guardare il mondo e
guardare gli altri come Gesù li guarda, come infatti li guardava durante la sua
presenza terrena. Cristo non ha occhi. Siamo noi che possiamo guardare al modo
di Gesù. Contiamo solo con i nostri occhi per guardare il mondo con tenerezza e
misericordia. Risuona ancora una volta la riflessione di Etty Hillesun, morta in un campo di concentramento nazista, e che
lì, in attesa della morte, ci ha parlato dell'impotenza di Dio di fronte al
dolore del mondo e alla sofferenza dell'essere umano. Con lei, donna
ammirevole, possiamo ripetere: "Dio
mio, noi ti aiuteremo". Dio che ha creato il mondo e lo ha redento è
‘impotente' davanti al peso schiacciante della crudeltà e dell'ingiustizia
umana. Ogni Cristo ha bisogno del suo Cireneo. Per la scrittrice e mistica
francese, Simone Weill, la prima virtù è l'attenzione. Se riusciamo a guardare
il mondo con attenzione e a guardarlo con compassione, allora potremmo
apprezzare cambiamenti nel nostro comportamento.
Una domanda: Cosa significa per me guardare
l’altro con tenerezza e misericordia?
2.- Un duomo e un
pozzo: Gesù, acqua viva

La diocesi di Palencia è una delle più antiche della
Spagna. Risale all'ultimo decennio del VI sec. Nel VII secolo costruì la sua
primitiva cattedrale, per ordine del re visigoto Wamba che fece portare le
reliquie di San Antolín da Narbonne (Francia). La prima costruzione fu demolita
e i secoli si incaricarono di seppellirla sotto tonnellate di terra. Gli alberi
e il bosco sono cresciuti. Secoli dopo, secondo la tradizione, un giorno il re Sancho
III el Mayor stava camminando attraverso una foresta. Ha visto correre un
cinghiale che si è nascosto in una grotta. Lo inseguì e quando tentò di
raggiungerlo con la sua lancia, si sentì paralizzare il braccio. Alzò lo
sguardo e vide San Antolín e il povero cinghiale rannicchiato ai suoi piedi.
Aveva appena scoperto le rovine della costruzione visigota. Il re ordinò la
costruzione di un'altra piccola chiesa, che oggi conosciamo come “Cripta
della Cattedrale”. Ci sarebbero voluti altri trecento anni perché la
colossale fabbrica della cattedrale gotica sorgesse nel 1321. Proprio l'anno
scorso con una magnifica mostra di arte, cultura e storia, Palencia ha
celebrato il Settimo Centenario della Cattedrale Gotica. Per tantissimi anni il
duomo di Palencia ricevette il titolo di “Bella sconosciuta”. Oggi le cose sono
un pò cambiate. Sono in tanti gli ammiratori che oggi viene chiamata “Bella
riconosciuta”
Il
paesaggio dell'Europa, da nord a sud e da est a ovest, è scandito dalle cupole
delle cattedrali, dalle torri delle chiese e dai campanili. Un'impresa di
secoli, un impegno di intere nazioni per la maggior gloria di Dio e lo stupore
delle generazioni successive. Il Duomo di Palencia non è estraneo a
quell'impulso costruttivo che, da un lato, ci parla della forza della fede e
l'immensa creatività artistica dell'essere umano e, dall'altro, del potere che
la chiesa deteneva in quel momento. Le cattedrali continuano ad essere in
questo XXI secolo il monumento più visitato di ogni città.
Invito: l’aqua
degli assetati
Nella bella cripta della cattedrale di Palencia c'è un
pozzo. Sin dai tempi antichi la gente di Palencia ha bevuto le sue acque.
Ancora oggi, ogni due di settembre, i fedeli vanno a bere l'acqua di quel
pozzo. Il Duomo del pozzo. Risuonano in noi i pozzi dell'Antico Testamento,
dove si dissetarono i patriarchi, le loro famiglie e il loro bestiame. Ma anche
l'acqua del pozzo che provoca liti e scontri, o facilita anche incontri e
alleanze. E risuona, soprattutto, il pozzo della samaritana a cui Gesù chiede
da bere. E Gesù approfitta di questo incontro per offrire una delle migliori
definizioni di sé, sempre poetica: Io sono l'acqua viva.
In questo campo, facilmente
possiamo subire tre tentazioni: Potremmo essere tentati di andare nelle
pozzanghere, che sono sempre acqua morta che ci fa ammalare o morire.
Possiamo essere tentati di non condividere con gli altri l'acqua viva
della nostra fede in Gesù, per pigrizia, per comodità. E potremmo essere
tentati di tappare il pozzo con i detriti di ogni giorno, in modo che arrivi
un momento in cui non possiamo più bere quell'acqua.
Il cristianesimo è la religione
della sete. Non dei sazi, ma degli assetati. Non dei rimpinzati, ma degli
affamati. Cristo fino all'ultimo momento della sua vita ebbe sete, ma non
accettò una bevanda artificiale che gli era stata preparata ai piedi della
croce. Solo chi ha sete trova una fonte di acqua viva. Il dramma dell'uomo
contemporaneo è che crede di non avere sete perché beve cocacola, birra o
aranciata (e lo dico come metafora). Chi si sazia delle bevande del mondo non
scoprirà mai la sua sete e, quindi, non raggiungerà mai l'acqua viva di Gesù.
Il poeta Luis Rosales ha scritto magnificamente: "Di notte, andremo di
notte / che per trovare la Fonte / solo la sete ci illumina”. Questa canzone risuona
tantissime volte nella comunità di Taizé.
“De noche, iremos de noche / que para
encontrar la Fuente / sólo la sed nos alumbra”.
Una domanda: Quale sono le bevande che me impediscono di avere sete dell’acqua viva
di Gesù?
3.- Un poeta: Jorge Manrique piange
per te
L’11 novembre 1476, Rodrigo Manrique morì nella città
di Ocaña (Toledo). Era il capo di una delle famiglie più illustri di Castiglia.
Di nobile lignaggio, soldato che combatté contro i musulmani e maestro del
potentissimo Ordine di Santiago. Jorge Manrique, suo figlio, (nato in Paredes
de Nava, un paese in provincia di Palencia), colpito dalla morte del padre, ha
scritto bellissimi versi che conosciamo come "Distici alla morte del
padre” “Coplas a la muerte de su padre", una profonda riflessione sul
dolore della morte, l'effimera natura della vita, la vanità delle glorie umane,
l'importanza di continuare a vivere, attraverso le opere buone, nella memoria
degli uomini e, soprattutto, la speranza che accompagna il credente. I versi
scritti più di 500 anni fa continuano a conservare la loro travolgente
bellezza.
I
celebri Distici di Jorge Manrique alla morte del padre iniziano così:
Recuerde
el alma dormida,
Avive el seso y
contemple,
Cómo se pasa la
vida.
Cómo se viene la muerte
tan callando.
Cuán presto se va el placer.
Cómo después de acordado,
Da dolor.
Cómo, a nuestro parecer,
Cualquier tiempo pasado
Fue mejor.
Nuestras vidas son los ríos
Que van a dar a la mar
In
italiano, sarebbe, più o meno, cosí:
Ricorda,
anima ddormentata,
sveglia il tuo cervello e guarda
come passa la vita,
come viene la morte silenziosa
quanto velocemente finisce il piacere,
come, quando lo si ricorda,
provoca sofferenza;
come, secondo noi,
qualsiasi passato
fu migliore.
Le nostre vite sono i fiumi
che sfociano nel mare...
Siamo qui. Ma potremmo non
esserlo. E potremmo non esserci presto. La vita è bella perché è effimera. Per
Dante, "i più sfortunati sono quelli
che non hanno speranza di morire". Il tempo che ci viene concesso è
l'unico tesoro che abbiamo per fare un po' di bene. Il poeta piange la morte
del padre, riflette sul significato della scomparsa, si chiede (ubi sunt) che
fine abbiano fatto coloro che hanno riempito il mondo della loro gloria. Pedro
Arrupe ha detto: "Non mi
rassegno al fatto che quando morirò, il mondo continuerà come se io non avessi
vissuto". E George Steiner ha scritto: "Siamo stati invitati alla vita, e uscendo da questa casa, dobbiamo
lasciarla un po' più bella e accogliente di quanto non fosse quando vi siamo
entrati”.
Invito: Esperienza
della finitezza e vocazione dell’infinito

Il poeta Jorge
Manrique piange anche per te. Si rivolge a te come si rivolge qualsiasi
classico della letteratura, qualsiasi avvenimento artistico. Parla a te e vuole
farti uscire dalla tua sonnolenza e torpore. Vuole costringerti a guardare
intorno, a domandarti Ubi sunt? Dove sono? Dove sono finiti i personaggi
potenti di tutti i tempi, che hanno avuto tutte le glorie e il mondo sotto i suoi
piedi? Cosa resta del calciatore che ogni volta che segnava veniva applaudito
da intere nazioni? Cosa rimane del politico seguito e votato dalle masse? Cosa
rimane quando il cancro distrugge il nostro corpo atletico e bello? Il cristiano è consapevole della propria
finitezza, ma allo stesso tempo sente viva in se la vocazione all'infinito. Al
contrario dell'edonista che dà valore di assoluto a cose, sentimenti ed
esperienze che poi lo deludono e lo frustrano; contrariamente al fatalista che
si rassegna a una vita di amarezza o di indifferenza, il credente guarda al
proprio cuore e a quello degli altri, conosce le gioie e le ombre, e vede nel
proprio cammino di conversione un'opportunità - l'unica - per trasformare
questo mondo e renderlo abitabile. Il credente porta in sé una nostalgia del
paradiso che lo spinge ad essere, contrariamente a quanto pensava Jean Paul
Sartre (“L’inferno sono gli altri”), un
piccolo giardino per i vicini e i lontani, seppure incompleto e imperfetto.
Gabriel Marcel, invece, affermava que “Il paradiso sono gli altri”. E diceva una
cosa veramente bella: “Dire a qualcuno ti
amo è dirgli: tu non morirai”. Ogni gesto d'amore tiene sempre un po'
lontana la morte.
Una domanda: Cosa significa per te essere
“paradiso” per gli altri?
4.- Una donna:
Teresa in un tempo di uomini

Il 28 dicembre 1580 una
donna arrivò in Palencia. È una suora cattolica (suo nonno era ebreo, per la
precisione, e per paura dell’Inquisizione contro gli ebrei aveva cambiato ad un
alto prezzo il suo cognome). Teresa in quel momento sta capovolgendo il
cristianesimo grossolano e vuoto di questa Spagna, il cristianesimo
inquisitorio, baciapile e bigotto di allora. Questa donna si chiama Teresa.
Oggi la conosciamo come Teresa di Gesù o Teresa d’Ávila. È una mattinata
nebbiosa così intensa che la città di Palencia si vede appena. Una donna in un
mondo fatto da uomini e per gli uomini. Teresa: un modo di essere e di vivere
come donna nella società e nella Chiesa. Una monaca libera ed intelligente, una
lettrice vorace, una grande scrittrice, un'amante di Gesù (in una visione,
Cristo le dice "Se tu ti chiami Teresa di Gesù, io voglio chiamarmi
Gesù di Teresa"), una credente che sceglie una spiritualità interiore
in contrapposizione a una religiosità ritualistica ed esibizionista, una
spiritualità vissuta nella preghiera (pregare è avere a che fare con chi
sappiamo che ci ama) e nella gioia della propria fede. In quegli anni tutta la
Castiglia, tutta l'Andalusia è piena di Teresa. Con molta discrezione, in
silenzio, entra nella città di Palencia dove ha comprato una casa che servirà
da convento (“Voglio che i miei conventi
siano piccoli così che nel Giorno del Giudizio non facciano molto rumore quando
crolleranno"). Quando la mattina dopo il suo arrivo, il 29 dicembre,
suona la campana che invita alla messa, tutta Palencia sa che in città è nata
una nuova fondazione di Teresa. Tutti si rallegrano. La donna più famosa
dell'epoca, forse l'unica, è appena arrivata a Palencia. Finita la fondazione, scrive
sulla gente di Palencia alcune parole che i palentini ripetono di padre in
figlio. Per ingraziarsi, lo straniero le ripete e l'indigena le proclama con
orgoglio. Parlando della fondazione di Palencia, Teresa scrive: “Non c'era persona a cui non piacessero la
nuova fondazione. Ha aiutato molto sapere che il vescovo l'amava, perché era
molto amato a Palencia. Ma tutto il popolo è della migliore massa e nobiltà che
io abbia visto, e così ogni giorno mi rallegro di avervi fondato.”
Invito: Libertá e
gioia.

Cosa possiamo imparare da Teresa
d’Avila? Fondamentalmente questo: Dio ci vuole liberi e ci vuole contenti.
Ci vuole liberi. "Un'anima ristretta non può
servire bene Dio." "Una grande cosa è la sicurezza della coscienza e
l'essere liberi". Per questo non vuole in convento monache analfabete:
“La priora ha l’obbligo di avere buoni libri”, “Mi piace molto leggere i
buoni libri” (In spagnolo dice così “soy amiguísima de los buenos
libros) “Sono amica di insistere sulle virtù, ma non sul rigore”.
Ci vuole contenti. La parola ‘contento’ è ripetuta
molto spesso nei suoi scritti. Ha detto che "temeva una sorella scontenta
più di mille demoni". Diffidava di chi si fingeva santo, e camminava per
il mondo serio, grave, triste, penitenziale. Con il suo grande umore dirà: “Dios
nos libre de los santos encapotados”. "Dio liberaci dai santi
tempestosi, nuvolosi, chiusi, scuri, tristi.... Dopo san Giovanni Bosco dirà
che "il demonio non ha potere su un cristiano pieno di gioia”.
Era
una suora di chiusura che non aveva paura delle strade, delle città. Ha
condiviso le locande e gli ostelli dove alloggiavano soldati, pellegrini,
briganti. Una volta andò a mangiare a casa di un benefattore. Le serve uno
stufato di pernice, un'autentica salumeria, un piatto con stelle Michelin: le
sue consorelle si oppongono, perché ritengono questo piatto contrario
all'austerità e alla povertà del convento. Teresa dice loro: “Quando pernice, pernice; quando penitenza,
penitenza”. Altra volta, il mulattiere che guidava il carro dove andava
Teresa, con la semplicità del suo mestiere gli disse: "Ho camminato tutta la strada al suo fianco, ma non so com'è.
Vorrei vedere il suo volto" (in quel momento le suore si coprivano il
viso con uno spesso velo". Con quella libertà dei figli di Dio, il velo fu
sollevato perché l'uomo potesse vedere la sua faccia. Una volta una piaga di
pidocchi riempì il convento. Teresa ha composto una canzone umoristica per
implorare Dio di liberare le sue suore da questi insetti. Nel suo convento di
Ávila possiamo ancora vedere un tamburello, dei fischietti e delle nacchere.
Teresa, al momento della ricreazione, amava cantare e far suonare gli
strumenti.
Teresa
è un invito alla gioia. Ogni credente ha ricevuto un vangelo, un ‘novum’. Non possiamo vivere con la
tristezza di chi non conosce questo tesoro. La gioia è una grande
testimonianza. Come possono gli altri pensare che contiamo su Gesù se ci vedono
tristi, se le nostre messe sembrano funerali e le nostre chiese sembrano pompe
funebri.
Il
primo miracolo di Gesù fu un miracolo veramente mondano, pagano,
‘superficiale’: trasformare l'acqua in vino. L'acqua è sufficiente per il
corpo. Ma l'acqua non è sufficiente per il cuore umano. Il vino è e sarà nella
nostra cultura mediterranea l'espressione più enfatica di gioia, condivisione,
celebrazione e festa. Il vino rallegra il cuore. Gesù, come ci dice Bach nella
sua celebre cantata, è la gioia degli uomini e cerca la gioia degli uomini.
Gesù è venuto per trasformare l'acqua insapore dei nostri cuori in vino gustoso”.
Una domanda: È il cristianesimo la religione
dei tristi oppure la fede dei felici?
5.- Un Cammino:
verso Compostela, verso di me.

Homo viator. Uomo in cammino. È una delle
più belle metafore per definire l’essere umano. Ryszard Kapuściński ha detto
che gli alberi hanno radici, ma gli esseri umani hanno le gambe. Nell'anno 813, il ritrovamento del corpo di San
Giacomo Maggiore in un villaggio di Galizia fu una notizia di portata
universale, che sconvolse l'intero continente e ha rallegrato e incoraggiato la
speranza di tutta l'Europa in un momento di grande pessimismo. Scriveva
giustamente Goethe: "L'Europa è
stata fatta pellegrinando a Compostela". Da San Pietroburgo, Palermo,
Parigi, Colonia o Lisbona, i piedi di pellegrini tracciavano centinaia di
cammini (pellegrino significa camminare per i campi, “per agros”). Al passaggio
dei pellegrini sorsero città, monasteri, villaggi e cattedrali. Con i
pellegrini arrivarono l'arte di altri popoli, la moneta, il cibo, i costumi, le
canzoni, la poesia e le lingue. La prima globalizzazione del mondo è sorta sul
Cammino di Santiago. "Gli 800
chilometri più transitati e più belli -secondo uno scrittore francese- d'Europa
sono quelli che vanno da Roncisvalle a Compostela". Al grido di al di
là e al di sopra, ultreia et suseia,
i pellegrini hanno promosso un modo di stare al mondo e una spiritualità del
camminante. Palencia è attraversata da est a ovest dal Cammino di Santiago.
Nomi mitici dei villaggi della provincia di Palencia accolgono i pellegrini:
Itero de la Vega, Boadilla del Campo, Frómista, Población de Campos,
Villarmentero, Revenga de Campos, Villalcázar de Sirga, Carrión de los Condes.
Alcuni di essi sono già menzionati nel Codex Calixtino del XII secolo, che è la
prima Guida del Cammino. Il percorso ha suscitato grande ospitalità come viene
raccolto in un manoscritto trovato a Roncisvalle.
La
porta è aperta a tutti:
ai
malati e ai sani;
non
solo ai cattolici
ma anche ai pagani,
ebrei,
eretici, vagabondi e,
più
brevemente,
ai
buoni e ai profani”.
Il
Cammino fece germogliare una delle benedizioni più belle:
“Sii per loro un compagno nella marcia, guida
agli incroci, incoraggiamento nella stanchezza, difesa nei pericoli, riparo
sulla via, ombra nel caldo, luce nelle tenebre, conforto nel suo scoraggiamento
e fermezza nei loro propositi, in modo che, con la tua guida, giungano indenni
alla fine della sua strada.
Invito: Stupore di fronte alla natura, l’arte e la storia degli altri
“Cammino verso me stesso" dice un pellegrino nel romanzo
L'oeuvre au noir di Marguerite Yourcenar. Il Cammino di Santiago fa parte di
questa terra. Ha disegnato l’urbanismo (alcuni paesi hanno una forma
urbanistica soltanto vista in questo territorio: le case e altri edifici si ammuchiano
ai due lati di un cammino), ha tracciato le strade, ha costruito città e paesi,
ponti e piazze. La storia di San Giacomo è dipinta e scolpita in tutte le pale
d'altare delle chiese. E ciò che è più importante ha plasmato qualcosa della
sua anima. Affinché il Cammino non sia solo percorso, ma vissuto, il pellegrino
ha bisogno dell'atteggiamento dello stupore.
Lo stupore davanti alla natura, davanti all'arte e davanti ai racconti degli
altri pellegrini
Stupore di fronte alla natura.
Sarebbe un peccato passare una media di sei, sette, otto ore al giorno
camminando e non guardare, ammirare e contemplare alberi, fiori, nuvole, terra,
fiumi, fenomeni atmosferici, erbe, raccolti, frutti, uccelli, bestiame,
insetti. Ammirare la natura ci porta quasi senza volerlo ad amare il creato e a
rispettarlo. Perché tanta varietà e tanta bellezza gratuita?
Stupore
di fronte all’arte. Passare accanto a cattedrali, chiese, bastioni,
castelli, ponti, palazzi, sculture, quadri, libri e inni, opere di oreficeria,
campanili, torri ci aiuta a stupirci davanti al lavoro degli uomini. I geni
dell'ingegneria, dell'architettura, della pittura, della scultura hanno dato il
meglio di sé. Sono morti, ma il loro lavoro rimane per il nostro gaudio e
meraviglia. Guardare, ammirare, contemplare la bellezza dell'arte, specialmente
dell'arte sacra, è una via privilegiata per accedere a Dio.
Stupore di fronte all’altro. E
ultimo ma non meno importante: lo stupore per i racconti di altri pellegrini.
Stavo camminando da pochi chilometri quando un pellegrino olandese mi ha
raccontato la sua storia: Veniva camminando dall’Olanda. Non era stato educato
in nessuna religione. Anzi era un ateo convinto. Sua moglie, invece, era
cattolica. Sfrattata dal cancro, era riuscita a riprendersi, secondo lei,
"grazie alla sua fede e all’amore di Dio". E il marito aveva deciso
di intraprendere il Cammino per ringraziare il Dio in cui non credeva per aver
tenuto in vita sua moglie, alla quale lui amava tanto. Quella prima storia mi
ha insegnato una cosa importante: ascoltare attentamente e con amore le storie
degli altri pellegrini. Ogni essere umano è un nome, un volto e una storia.
Solo se amiamo il suo volto, il suo nome e la sua storia, possiamo formare con
lui una fratellanza umana.
Risuona
in noi il Salmo 8
Se guardo il tuo cielo, opera delle
tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissate,
che cosa è l'uomo perché te ne
ricordi
e il figlio dell'uomo perché te ne curi?
Eppure l'hai fatto poco meno degli
angeli,
di gloria e di onore lo hai coronato:
li hai dato potere sulle opere
delle tue mani,
tutto hai posto sotto i suoi piedi;
Una domanda: Quale storie raccontate da altri mi hanno riempito di stupore?
6.- Un testamento: caramelle
per i “buonifigli”.

Il 9 ottobre 1971, un uomo morì in un piccolo
ospedale di questa città. Un uomo che ha unito nella sua vita le città di Como
e la città di Palencia. Era stato molte volte nella città di Como per
inginocchiarsi presso la tomba di Don Guanella, nel Santuario del Sacro Cuore,
in via Tommaso Grossi. Parlo del guanelliano fratel Giovanni Vaccari.
Pochi mesi fà si è conclusa in questa città dove ci troviano adesso la fase
diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione di questo umile
frate. La sua vita darebbe per scrivere una sceneggiatura televisiva o un
romanzo. Nato a Sanguinetto in 1913 (provincia di Verona), gli fu impedito di
diventare sacerdote a causa dei suoi clamorosi fallimenti negli studi,
soprattutto in latino e greco. Abbandonò scrivania e libri, e per 20 anni, che
coincisero con la seconda guerra mondiale e il terribile dopoguerra, fu cuoco
dell'intero seminario guanelliano di Barza d’Ispra (Varese). Andava nelle
fattorie e nei villaggi per comprare un po' di farina, burro, carote o fagioli.
In seguito fu chiamato a Roma come domestico servitore del cardinale Clemente
Micara. Questo lo trovò poco protocollare e poco consono alle sontuose sale del
Palazzo della Cancelleria a Roma, e lo licenziò. Misteri della vita, due anni
dopo lo ha richiamato. Poi s’iniziò la lunga malattia del cardinale. E a poco a
poco il palazzo si spogliò di vescovi, cardinali, ambasciatori e ministri della
Democrazia Cristiana. Alla fine, in quell'immenso Palazzo della Cancelleria,
rimasero un cardinale ammalato e un servitore fedele.
Alla
morte del cardinale, fratel Giovanni fu inviato in Spagna. Non conosceva la
lingua, né la cultura, né la storia, ma obbedì. Dovette andare di città in
città, di paesino in paesino, di scuola in scuola, alla ricerca di seminaristi
per il nuovo collegio di Aguilar de Campoo, un paese di questa provincia e
prima fondazione dei guanelliani in Spagna. E allo stesso tempo, andava alla
ricerca di un terreno in questa città dove poter costruire una casa per persone
con disabilità mentale. Morì in un incidente stradale. Il giorno del suo
funerale, il parroco rifiutò di intonare un canto di supplica e perdono per
l'anima del defunto e cantò, cosa inappropriata nella liturgia del 1971, un
noto canto spagnolo del Tempo di Pasqua: ¡Resucitó! È risorto. Poi con voce
alta disse: Oggi è morto un santo! Fu seppellito nel cimetero di Como ed ivi
restò fino all’anno 2013, quando le sue spoglie furono trasferite alla capella
di Barza d’Ispra.
Invito: sapersi
disabile e fragile
Fratel Giovanni non ha visto finita la casa per
disabili che tanto desiderava. È stata la prima casa aperta in questa città di
Palencia per persone con disabilità mentale. Rimane ancora. Si chiama Villa San
José.
Fratel
Giovanni ha lasciato un testamento piuttosto strano: dopo aver chiesto perdono
per le sue colpe e implorare preghiere per la sua anima, ha ordinato che se ci
fossero monete nelle sue tasche quando sarebbe morto, si doveva comperare
caramelle per i ‘buonifigli’. Buonifigli è una parola guanelliana, nata a Como,
ed è il modo affettuoso di nominare le persone con disabilità.
Il
contatto frequente con persone con disabilità ci aiuta a pensare alle nostre
stesse disabilità, limiti, imperfezioni, fragilità. Chi di noi non è disabile?
Pensi, per caso, che esistano solo i disabili mentali, cerebrali, neurologici,
fisici? Sapere di essere imperfetti, limitati, fragili, vulnerabili ci aiuta a
capire le imperfezioni degli altri, a conviverci, a non giudicarli
rigorosamente. I superbi, gli arroganti, i critici, gli spietati e gli
indifferenti hanno una disabilità maggiore: quella del cuore.
Ogni
9 ottobre i guaneliani, ovunque si trovino, distribuiscono caramelle ad amici,
vicini, colleghi di lavoro, parenti. Non solo per ricordare il fratello
Giovanni Vaccari, ma anche per ricordare a noi stessi i nostri limiti e le
nostre incapacità. Se mai passerete per Santa Maria di Lora, a Como, in uno dei
suoi corridoi troverete disegnato il volto di fratel Giovanni Vaccari, con
delle caramelle intorno.
Una domanda: Quale sono le tue disabilità? La
disabilità altrui ti provoca rifiuto o empatia?
Finale: Sempre Teresa

Teresa d’Ávila, che abbiamo
ricordato in questa conferenza, ha scritto: "Che
cosa grande è l'anima... questo piccolo paradiso della nostra anima... questo
piccolo palazzo della mia anima". Prima di finire, vorrei recitare una
poesia di Teresa d’Avila. Forse la più conosciuta. Chiunque sia andato a Taizé l'avrà senza dubbio sentita.
Niente ti turbi/Niente ti
spaventi/tutto passa/Dio non cambia
La pazienza ottiene tutto/ a chi a Dio/niente gli
manca/Solo Dio basta!
Nada te turbe,
Nada te espante,
Todo se pasa,
Dios no se muda,
La paciencia
Todo lo alcanza;
Quien a Dios tiene
Nada le falta:
Sólo Dios basta.
https://www.youtube.com/watch?v=go1-BoDD7CI&list=RDgo1-BoDD7CI&start_radio=1
E così, con queste parole di
Teresa finisco. Grazie per il vostro ascolto. Se avete qualche domanda o
qualche riflessione che volete condividere, fatevi avanti.
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Quando avevo 23 anni ho dovuto
fare il servizio militare obbligatorio a Madrid. In quel momento la mia anima era
perduta e anche il mio corpo. Ho bussato a una porta e, senza chiedere nulla,
mi hanno servito da mangiare, un caffè, un dolce e una conversazione. Era la Casa
di Santa Teresa delle suore guanelliane. Quando mi sono congedato, mi hanno
detto: qui hai una stanza e delle amiche. Quel ricordo mi ha fatto dire di sì
alla proposta ‘indecente’ di suor Sara Sánchez, cioè, tenere una conferenza in
una lingua straniera. Suor Sara Sánchez (lo stesso cognome originale della famiglia di Santa Teresa), suora guanelliana, palentina e comasca, devota
di fratel Giovanni, e amica da tanti anni.
L’amore
ci fa commettere tante pazzie, lo sapete bene. Ma anche per amicizia si fanno
follie.

